Sembrava andare tutto liscio.
La scorsa settimana ti ho raccontato l’esperienza del primo giorno di scuola di Figlia Grande e di come io l’abbia vissuta.
Conoscendomi, pensavo ad un mia reazione più amplificata rispetto alle poche lacrimucce che hanno fatto capolino sulle mie guance.
Che insensibile, pensavo.
Poi, come capita per molti eventi della nostra vita, un episodio a cui avevo dato poco peso mi ha fatto cadere in un baratro di malinconia.
Cosa ha innescato la miccia?
Adesso te lo spiego.
Piscine e ricordi
Quando Figlia Grande era piccola, tipo verso i sei mesi, abbiamo iniziato a buttarla in piscina in quei corsi di acquaticità neonatale.
Ricordo con nitidezza tutte le mie paure, per dirne una: farla affogare. Sarebbe stato complesso spiegarlo alla mamma, che ci aspettava fuori dagli spogliatoi.
Col tempo mi abitua: la facevo immergere e riemergere a piacimento (mio), nonché sfruttavo questa occasione settimanale per una sessione intensiva di lavaggi nasali, con cloro e altre amenità, sicuramente incompatibili con una sana crescita della creatura.
La procedura di vestizione e successiva doccia era in carico alla mamma, che poi mi passava questo fagotto, inconsapevole che da lì a breve avrebbe avuto a che fare con acqua manco troppo tiepida, palline, tappetoni e scivoli con pendenze inappropriate anche per gli adulti.
In quei momenti, non pensavo minimamente che un oggetto animato di pochi chili si potesse trasformare in pochi anni in un soggetto autonomo, che mi avrebbe solo chiesto le monetine per la ricarica del phon.
Solo in Italia i phon nelle piscine sono a pagamento; sarebbe d’uopo un editoriale di denuncia su Il Foglio.
Sono andato troppo avanti, faccio un passetto indietro.
Autonomia vs Inutilità
Con l’inizio della scuola, sono partite le attività collaterali, tra cui un’oretta alla settimana in piscina. La prima volta, Figlia Grande era stata accompagnata dalla mamma; alla seconda, soprattutto per liberarmi dalle grinfie e dagli starnuti in faccia di Figlia Piccola, sono andato io.
Zaino in spalla, lei. Giacche, cappelli, sciarpe, skipass, io. C’erano venti gradi ma, si sa, il colpo d’aria coi capelli bagnati è sempre dietro l’angolo.
Arrivati in piscina - lo sapevo dall’inizio, ma realizzarlo è un’altra cosa - ho abbandonato Figlia Grande a una ragazza, che all’apparenza aveva pochi anni più di lei, con il ruolo di supporto alla logistica. Papà e mamma, non possono più entrare negli spogliatoi.
Un pò destabilizzato, mi sono fiondato sui divanetti vicino alla vetrata, aspettando il suo passaggio.
Passò, con i capelli raccolti nella cuffia, un accappatoio ancora troppo largo per la sua stazza minuta e delle infradito appariscenti. Non si è voltata a cercarmi e si è seduta sui gradoni in attesa della maestra.
Rumore di cristalli che si rompono in sottofondo: mi convinco che il cuore non si possa rompere, anche perché la mia polizza assicurativa non ne prevede la sostituzione.
La sensazione era comunque quella: il distacco che avevo vissuto parzialmente il primo giorno di scuola è tornato con gli interessi, su quel divanetto affollato e poco consono al momento delicato che stavo affrontando.
Decido così di allietarmi con un buon libro, nell’attesa che passassero quei trequarti d’ora scarsi. Ogni tanto butto l’occhio oltre il vetro, sia mai che qualcuno mi cercasse. Non succede.
Gli amici di
, nella loro ultima newsletter, hanno citato il libro “Messaggio per mio figlio” di Alejandro Zambra. In sintesi, è un capolavoro. Soprattutto per papà alla ricerca del senso di essere papà, ma nello stesso tempo sono anche figli. Tutto condito da ironia, sarcasmo, leggerezza, serietà. Il genere di libro che ti fa pensare “ma perché non l’ho scritto io?”. Non mi rispondo per non infierire.Leggere alcune pagine di quel libro, in quel momento, ha creato un cortocircuito del mio sistema limbico, in aggiunta alle incrinature del cuore sopra citate.
In testa ronzava un quesito più di altri: è vero che l’autonomia dei nostri figli è inversamente proporzionale all’utilità dei genitori?
Ancorato a un ruolo che non voglio lasciare, mi rispondo di no. Rinsaldo la mia tesi, pensando a me come figlio. Più o meno autonomo - con latenti difficoltà nello sbucciare frutti complessi come la mela - trovo l’attuale presenza dei miei genitori (sono fortunato) non solo utile, ma fondamentale per superare certi momenti critici.
Soddisfatto di questa auto-arringa difensiva è ora di rimettere i panni del genitore censore, per verificare se i capelli sono stati asciugati bene dalla tutrice temporanea.
Convalescenza e consapevolezza
Arrivato a casa, dopo questa esperienza estrema, ho ancora i muscoli delle gambe indolenziti e un senso di nausea di chi ha pagato cento euro per andare a Gardaland e ha voluto andare su tutte le giostre almeno tre volte.
Mi servirà ancora tempo per prendere consapevolezza di questi cambiamenti, pronto ad essere sorpreso anche in situazioni all’apparenza naturali, come poteva essere andare in piscina.
Ma all’orizzonte si insinua un altro dubbio, che temo si avvicini molto di più alla realtà rispetto alle mie opere di autoconvincimento.
L’efficacia del lavoro di genitore si può misurare nella velocità con cui ci rendiamo inutili per i nostri figli. Perché significa che li stiamo rendendo autonomi, sin da piccoli, nell’affrontare la vita.
Più rileggo questa frase e più sento acuirsi una fitta. Mi sa che ho centrato un bersaglio, che avrei voluto mancare.
Devo metabolizzare questo concetto che mi ribolle dentro. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi, nei commenti o rispondendo a questa mail.
Fra poche settimane ricomincia ginnastica ritmica: credo che nasconderò il body e le punte. Una piccola tutela alla mia instabile sicurezza genitoriale, me la vorrai pur concedere?
Per questa settimana è tutto, dalla prossima passerò a temi più leggeri del tipo: come trovare una tata nell’era moderna.
Alla prossima.
Grazie per aver letto, commentato e messo cuoricini all’ultima newsletter: mi ha fatto piacere. La riporto qui, per chi se la fosse persa:
Quanta profonda verità nelle tue parole condivise, Luca... Educare è davvero l'arte suprema del "lasciare andare".