Attenti o onnipotenti?
Quando la responsabilità genitoriale si scontra con i limiti dell’umano
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Quando avevo dieci anni passavo il mese di Agosto in un piccolo paese dell’astigiano. Negli anni novanta c’era ancora quel regime libertino in cui si usciva al mattino per giocare in piazza, si tornava per pranzo e poi di nuovo in giro fino a sera. Divertimento, ginocchia sbucciate, litri di mercurio cromo, canottiere madide di sudore e gambe sudice. Questi sono i ricordi delle mie estati in campagna.
Da quando sono diventato papà, ne è riaffiorato un altro. Avevo una Bmx gialla e blu. La usavo ovunque: in cortile, ma spesso in strada. Con mio cugino facevamo il giro del paese, che culminava in una discesa tanto ripida quanto divertente. Al termine della discesa c’era un grosso cartello con la scritta STOP, perchè ci si immetteva direttamente sulla strada principale che attraversava tutto il paese. Per quanto a dieci anni sapessi leggere, non rispettavo mai questa indicazione e mi fiondavo a piena velocità sfruttando l’abbrivio della pendenza. Per quanto il paesello fosse deserto già trent’anni fa, sulla via principale in pieno giorno, qualche macchina passava.
Se ripenso ora al rischio di essere spazzato via in una delle mie tante discese, mi vengono i brividi. I miei genitori apprenderanno questa mia bravata leggendo questa newsletter, appunto trent’anni dopo.
Cosa avrebbero dovuto fare per stare più attenti a questo pericolo? Come potevano custodirmi meglio? Avrebbero dovuto accedere al dono onnipotente della telepatia?
Era una serata d’estate. Figlia Grande aveva un anno e mezzo e mia moglie era in trasferta. In queste serate in solitaria, ero solito portarmi mia figlia nel lettone per evitare una continua navetta verso la sua camera e, in fondo, per godermela per bene. Da una parte io, con il mio fisico statuario mi trasformavo in una barriera invalicabile per lei, nonostante i suoi movimenti acrobatici. Dall’altra costruivo un frangibimbo artificiale con una montagna di peluche accatastati con la precisione maturata in tante ore di Tetris. Fatto sta che, sarà stato il caldo, la cena pesante o i giochi sfrenati, il rotolamento notturno ha infranto la barriera, facendo cappottare Figlia Grande sul comodino lì vicino.
Nel dormiveglia non mi accorsi dell’importanza della ferita; al mattino, visto lo sfregio, sopra il sopracciglio siamo andati al Pronto Soccorso. Tenendo a bada crisi di panico (mia) e urla (sue), ne siamo usciti con un codice verde, una pomata definita miracolosa e quei cerotti a strisce che fanno molto film americano. Un grande spavento, un piccolo segno che rimarrà (con la speranza che la crescita della testa lo renda meno visibile, ma è un’ipotesi non sostenuta da evidenze cliniche) e un enorme senso di colpa che ancora oggi mi accompagna.
Cosa avrei dovuto fare per stare più attento? Come potevo custodirla meglio? Avrei dovuto accedere al dono onnipotente dell’essere cosciente in una zona di sonno profondo?
Sembrava la solita frenetica mattina: sveglie ripetute, lamentele canzonate, colazioni lente e incomplete, vestizioni problematiche per gusti discutibili, lavaggio dei denti con l’attenzione di uno che scorre l’App di TGCOM. Insomma, la classica routine di una famiglia con figli piccoli. In qualche modo, ci chiudiamo alle spalle la porta di casa e scendiamo le scale con la solita fatica del “le facciamo da sole”, “voglio la manina”, “porta tu la cartella”, “saltiamo gli ultimi tre gradini”; per grazia divina arriviamo in fondo. Figlia Grande schiaccia il bottone che apre il portone e il cancellino, e si dirige verso quest’ultimo sapendo che non lo deve varcare. Figlia Piccola mi sfugge di mano, supera di slancio Figlia Grande come Marcel Jacobs nei tempi migliori e arriva in prossimità del cancellino che dà sulla strada. In quel momento, un secondo prima che lo varcasse, in una scena che vedevo alla velocità di un replay, una macchina è sfrecciata ad alta velocità. Mi sono cedute le gambe, e mi sono reso subito conto del rischio che abbiamo corso. Non ricordo se e come mi ricomposi, se e come sgridai Figlia Piccola - quando l’unico colpevole ero io - ma quella giornata fu diversa.
Dopo più di un anno, in tante mattine rivivo quel momento e cerco di fare di tutto affinchè non riaccada ma l’incertezza di non averne la certezza, è logorante. Che sia un cancellino di casa, un attraversamento pedonale o altro, perdere quella manina e, con lei, quella creatura che con tanta fatica stai cercando di far sbocciare, è un peso grande da sostenere.
Cosa avrei dovuto fare per stare più attento? Come potevo custodirla meglio? Avrei dovuto accedere al dono onnipotente del prevedere l’arrivo della macchina e fermarne la corsa con un comando del tipo “Ehi Siri, ferma quella macchina!”?
Federico ha 17 anni, è al mare con la sua famiglia: suo papà e i suoi fratelli più piccoli. Da buon fratello maggiore intrattiene i bambini, e ogni papà si affiderebbe a lui per lasciarli liberi al divertimento e riprendere fiato. Federico scava una tunnel di sabbia, esagera forse per mettere alla prova le sue capacità, forse per alimentare la curiosità dei fratelli. Le pareti del tunnel crollano, la sabbia porta via con sé ogni grido d’aiuto e di speranza. Federico non c’è più.
Il papà viene iscritto nel registro degli indagati, un “atto dovuto” sostengono le autorità. Come se ci fosse un tribunale che potrebbe aggiungere un peso a quello che si sta già autoinfliggendo quell’uomo.
Risalendo lo stivale, c’è la storia di Allen, un bambino di 5 anni scomparso nei pressi di Ventimiglia. Qui c’è stato il lieto fine: il bambino è stato ritrovato, un uomo è indagato per omissione di soccorso e i genitori “negligenti” - additati all’inizio addirittura di abbandono di minore - hanno tirato un grande sospiro di sollievo. Non sapere le sorti di un figlio per diversi giorni, deve essere una delle pene più dolorose per un genitore.
Ma arriviamo alla riflessione finale.
Come hai letto, ti ho raccontato le mie esperienze da figlio, da padre e due recenti fatti di cronaca, legati al concetto di responsabilità dei genitori verso i figli.
Credo sia giusto chiedersi, a questo punto:
Qual è il limite tra l’attenzione e l’onnipotenza. Perchè è questa la domanda sottesa dalla legge. Che cosa si intende concretamente per “mancata custodia di un minore”?
Per non mancare la custodia di un minore - anche di un minore di diciassette anni nel caso più tragico delle storie riportate - dovremmo stare con lui giorno e notte, come un neonato. Stiamo parlando degli stessi diciassettenni che vanno alle feste, prendono i mezzi, bevono, fumano, hanno relazioni più o meno tossiche, insomma quei diciassettenni che vivono. E noi dovremmo custodirli, proprio come si farebbe con un violino pregiato o una cover di un telefono, per parare gli urti evitabili ma, incredibilmente, anche quelli inevitabili.
Le tragedie che colpiscono le famiglie con minori sono innumerevoli: bambini abbandonati in macchina, affogati in mare, investiti, colpiti da attacchi allergici, vittime di incidenti con animali. Lo so, un elenco da pelle d’oca, scritto senza troppi fronzoli. Ma oggi non sono necessari orpelli, guardiamo in faccia la realtà
NON SIAMO ONNIPOTENTI
Altrimenti avremmo creato l’Universo, la società NVIDIA e altre cose simili.
Siamo persone, genitori nella fattispecie, che ci mettono il 200% del loro impegno nel controllare, affiancare, lasciare andare, riprendere, litigare, fare la pace, accettare i silenzi, sbottare con le urla. In tutto ciò, a volte ci perdiamo, nel senso che perdiamo l’attenzione, perchè pensiamo anche alle bollette da pagare, all’iscrizione alla mensa scolastica o, in piccolissima parte, alle cose che riguardano la nostra vita, quella di un adulto di mezza età con tutte le fragilità, le crisi ormonali e generazionali del caso. Ma solo in piccola parte, eh. E’ proprio in quel momento, che succede il patatrac.
Non posso augurare che non succedano le tragedie, ma posso sperare che l’accanimento mediatico e della legge non travalichino la soglia di un dolore che non si può immaginare, se non vissuto. E’ una questione di rispetto, un valore che sembra appartenere poco alla nostra specie.
Alla prossima.
Crediti: Le immagini sono prese a titolo gratuito dal sito pixbay o generate con Ideogram, Bing AI Creator o di produzione personale



Eh... *la* questione delle questioni, per un genitore, no? Dove sta il confine tra responsabilità e mania del controllo? Come fare affinché l'ansia (l'angoscia, a volte) non inondi il terreno della relazione educativa? "Lasciamoli liberi di sbagliare", si sente dire. Ma se lo accetto e ribadisco come insegnante, come madre lo 'sbaglio' assume anche le forme più gravi - e a volte irrecuperabili - alle quali accenni anche tu.
Quindi?
Quindi non lo so. La mania del controllo è certamente una patologia psichiatrica, però anche alzare le spalle e commentare "Dio vede e provvede" (come ho sentito spesso dire da conoscenti a cui, oggettivamente, 'va sempre tutto bene'!), anche no!
Grazie per l’onestà, perché da genitore sembra sempre che non capiti mai nulla di pericoloso ai bimbi