Reduci dalla cocente delusione delle notti magiche italiane, sfrutto l’onda emotiva: da dove nasce la voglia di vincere?
Ci paragoniamo ai bambini, quando vogliamo ricordarci di quanto noi adulti siamo logorati dalla vita moderna.
Loro riescono a vivere il momento.
Loro sanno ancora meravigliarsi.
Loro non si vergognano di piangere.
Loro si mostrano come sono, senza sovrastrutture.
Loro accettano la sconfitta.
I bambini vogliono vincere. Sempre. In ogni modo: barando, cambiando le regole, gettandosi in terra piangenti. La parola sconfitta non esiste nel loro vocabolarietto.
In questo, buona parte di noi adulti - almeno quelli che non ambiscono a medaglie olimpiche, trofei Slam o a uscire in coppia da Temptation Island - lavoriamo per accettare la sconfitta. In realtà anche gli atleti. Per quelli di Temptation Island non c’è proprio speranza.
Ma perchè questa sete di vittoria fin dai primi anni di vita?
Per che squadra tifi?
Capita che dopo un binge whatching di Winx, Lady Bug e Principessa Sofia, possa avere voce in capitolo sull’accesso al telecomando.
In questo periodo guardo tanto Tennis, un pò di calcio, seguiti da moto e Formula 1 (come sonnifero). Nei primi minuti di visione, mi tiene compagnia Figlia Grande.
Chi sta vincendo?
Sono 0-0.
Quindi quelli vestiti di rosso?! Io sono quelli vestiti di rosso.
Neanche mi dice “Io tifo per…”, ma proprio si identifica nel soggetto che vince.
Lo stesso vale per il tennista in vantaggio e la moto o la macchina che guida il gruppo.
Hai notato che tifi sempre per quelli che vincono?
A me piace quello.
Sembra un riflesso incondizionato che si ripropone anche nei giochi in casa o con gli amici all’asilo. Guai a stanarla a nascondino, piuttosto che instaurare una dinamica in cui la mia Cry Baby piange di più della sua.
Disclaimer: a 42 anni non ho un Cry Baby, mi viene gentilmente prestata.
Ai giardini è sempre un più veloce sull’altalena, più in alto sullo scivolo, più inerzia sulla carrucola; alle feste è sempre un più amici, location più grande, più regali.
Avessi tutti questi più sul cedolino dello stipendio, potrei abbandonare le mutande marca UOMO da banco del mercato, a favore di qualcosa di meglio (o di più confortevole).
Ma tutti questi più, tutta questa competizione ad eccellere, ad essere i migliori in tutto, non è tremendamente stancante? Non intravedi qui l’inizio di quel tendere alla comparazione che rovina la vita a noi adulti?
Sull’altro piatto della bilancia, bisogna però tenere presente che la competitività e l’alzare l’asticella per raggiungere obiettivi nuovi sono elementi imprescindibili per incrementare autonomia, autostima e per cercare uno scopo nella propria vita.
Insomma, il solito casino. E noi genitori, come ci comportiamo a riguardo? Alimentiamo la cazzimma o stemperiamo i toni, con la cultura della sconfitta?
Aggiungo ancora qualche elemento personale.
Diciamo “No!” ai genitori tifosi
Da ragazzo ho giocato molti anni a calcio. Ho avuto periodi di clamore, gloria, tristezza e solitudine.
Sentimenti che mi hanno fatto maturare: ho capito le prime dinamiche di gruppo e l’esposizione ad un giudizio pubblico.
Spesso questo giudizio arrivava dalle tribune, da genitori che riflettevano nei propri figli la rivalsa di una carriera sportiva incompiuta e per questo si sentivano autorizzati nell’esaltare o straccionare i propri figli e, a volte, quelli altrui.
Per fortuna mio papà non era tra questi e mi sono ripromesso di seguire il suo esempio.
Figlia Grande, da un paio d’anni, è iscritta a ginnastica ritmica. Un’ora a settimana (di cui l’80% speso per cambiarsi, bere, lamentarsi e litigare con le altre bambine). Ti lascio immaginare il livello tecnico raggiunto.
Nei miei sogni reconditi, all’inizio c’era un pensiero ai cinque cerchi, vista la buona tradizione delle farfalle azzurre. Ho capito in fretta che mia figlia non è molto portata, mi sono ridimensionato e mi sono messo in ascolto di come vivesse questo sport.
Al saggio di fine anno, ho assistito ad una coreografia in cui volavano ombrelli a destra e a manca - ma di quattro attrezzi a disposizione nella ginnastica ritmica, perchè un ombrello in coreografia? - e ho ringraziato di non essere dovuto ricorrere al Pronto Soccorso (menzione d’onore al santino di de Coubertain che tengo sempre in tasca).
Tornando al me bambino, ricordo che volevo vincere, ma non era un’ossessione. Comprendevo i limiti miei e della mia squadra e, quando vedevo che la partiva si metteva male, andavo alla ricerca di una gioia personale: un buon passaggio o, perchè no, un goal.
Forse questa mentalità, unita ad evidenti limiti tecnici e fisici, non mi hanno spinto verso una carriera professionistica, ma sento che l’esperienza vissuta in questo modo, mi abbia portato più benefici che danni.
Quindi ATTENZIONE: facciamoci un piccolo esamino di coscienza genitoriale per scongiurare la possibilità di essere proprio noi quelli che alimentano la fiamma del “vincere a tutti i costi”. La ricerca di quella solita via di mezzo, potrebbe essere un buon percorso di crescita per tutti.
Ma cosa dice la scienza?
C’è sempre un motivo
Purtroppo con la mia newsletter, arrivo cinquant’anni in ritardo. Non vincerò alcun premio Nobel e quindi dovrò accettare questa sconfitta, tanto è l’argomento del giorno.
Nel 1977, Albert Bandura, attraverso la sua teoria dell'apprendimento sociale, ha dimostrato che i bambini imparano comportamenti osservando e imitando gli altri. Se vedono modelli (come genitori, insegnanti, o compagni) che valorizzano la vittoria, sono portati a interiorizzare l'importanza del vincere.
A volte poi è proprio questione di chimica.
Studi neuroscientifici hanno rilevato che la vittoria attiva il sistema di ricompensa del cervello, rilasciando dopamina, che è associata al piacere e alla gratificazione. Questo processo può rendere i bambini desiderosi di ripetere l'esperienza della vittoria (Schultz, W. 1998).
Chiudo perchè non vorrei mai che questa newsletter venga presa come una cosa seria: non poteva mancare uno studio sull’autostima.
Uno studio pubblicato sul Journal of Experimental Child Psychology ha esplorato il legame tra competizione e autostima nei bambini. I ricercatori hanno scoperto che vincere nelle competizioni può aumentare l'autostima dei bambini, poiché ricevere riconoscimento per le proprie capacità contribuisce al loro senso di valore personale (Veroff, J. 1983).
Insomma, l’argomento su come i bambini vivano il concetto di vittoria è oggetto di studio da anni e non è questa la sede per andare in ulteriori dettagli scientifici.
Volevo solo stimolarti a pensare come stai affrontando questo tema con i tuoi figli, per ricalibrare il tiro o andare avanti sulla strada intrapresa.
Se ti va, fammi sapere una tua esperienza con i tuoi figli!
Alla prossima!
Se vuoi far notare a tuo figlio qualcosa che proprio non digerisci di lui, ricordati della tecnica del panino! Vale anche con gli adulti.
Con mio figlio grande in otto anni di vita abbiamo provato con insuccesso 4 sport, non portati a termine oltre i 4 mesi. Con figlia piccola, il primo tentativo con la danza è miseramente fallito alla prima influenza. Speravo non prendessero i geni del divano miei e di mio marito, la nostra genetica orticaria per tutto ciò che è performance e competizione ha reso i nostri figli insofferenti e non appassionati ad alcun tipo di sport. 🥺 A settembre tenteremo con qualcosa di divertente...chenneso' magari la Capoeira😅
Trovo molto appropriata la foto del bambino che gioca a baseball. Noi abitiamo in USA e un anno mio figlio ha fatto calcio. Ambiente super civile e sciallo, io stupitissima ("ma dove sono i papà che bestemmiano?"). Poi siamo passati al baseball e ho capito che la vera partita si gioca sul diamante. Ogni anno dobbiamo firmare un accordo con cui ci impegniamo a non rompere i c* ad arbitri e allenatori, pena l'espulsione (dei genitori, non dei bambini) 🤣